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Gli Scalpellini
Nella Valle del Vara ogni singolo paese era ed è un’entità a se, paesi vissuti lontano dai clamori della storia, gente abituata a strappare alla terra ciò che serviva loro per vivere, indipendentemente dai governi che si susseguivano.
Molti sono i mestieri che ritroviamo nella nostra memoria, uno molto importante è lo scalpellino.Valdipino e casella avevano la più abile e importante scuola di lapicidi e scalpellini della Valle del Vara.Vi erano più di quindici cave di arenaria, pietra conosciuta per la sua durezza di quel caratteristico colore grigio, dove lavoravano centinaia di persone; questo era il mestiere principe della valle in quei tempi lontani.
In oltre si estraeva anche una serie di altri marmi dei quali ricordiamo: La breccia chiara e scura, il portoro, il marmo rossastro e il diaspro rosso (la cui cava è stata dimessa alcuni anni fa). Ritroviamo date significative sui portali anno 1600-1700-1800, chiese del 1300; questo ci dice che sono secoli e secoli che risuonano in questa valle i colpi dello scalpellino.
Proviamo ad immaginare come poteva essere la giornata di queste persone, forse all’ora come poco tempo fa tutto doveva essere rimasto uguale e intatto nel tempo, stessi attrezzi da lavoro, tramandati da padre in figlio, stesse mani abili sulla pietra domata e lavorata con perizia allora come qualcuno ancora oggi.
La giornata è scandita dal canto del gallo e dal tramontar del sole, si percorre a piedi
la strada che sale alla cava.
Arrivati sul posto di lavoro, ognuno si accinge la proprio compito, perché gli scalpellini erano divisi in due categorie i riquadratori e i rifinitori.
I manovali avevano il compito di estrarre il materiale dalla montagna con “u pistulettu”, bucavano la roccia nel punto dove i riquadratori gli indicavano per poi inserire la polvere da sparo per far staccare grossi blocchi che poi facevano rotolare nel piazzale della cava e con “i palanchini” li mettevano nella posizione migliore per la sbozzatura.
I riquadratori avevano la lista dei lavori commissionati e sceglievano il blocco migliore per fare l’opera; individuavano il verso del sasso e con la “punta quadra” facevano le tasche dove andavano inseriti i “panciotti” se vi era bisogno e su questi poi davano sapienti colpi di “massa” e la pietra si apriva nel verso voluto, evitando così di lavorare sassi di “secondo verso” o sassi di “testa” molto più duri e difficili da lavorare.
Successivamente con colpi di “testù” prefinivano il sasso che passava così ai rifinitori, seduti sulla “caseta dii feri” con il “masoo, punta e scopéé” finivano i bordi, mentre i piani degli scalini o dei “paestraa dee porti” ( gli stipiti delle porte!) venivano finiti a colpi di martellina e ultimavano il lavoro con scalpelli particolari.
In una giornata lavorativa occorrevano allo scalpellino una quindicina di attrezzi che si usuravano rapidamente.
Per questo compito c’era il fabbro, nella casetta li vicino;
che con la forgia scaldava gli attrezzi e li teneva con “a tenagia” perché diventavano roventi e, con “u martee di feri” li batteva sull’”ancusena” per farli diventare taglienti, poi li immergeva “en tu cadinetu” pieno d’acqua per ultimare la tempera; era un lavoro continuo.
Gli ultimi scalpellini prediligevano l’acciaio Svedese per le sue qualità oppure si arrangiavano a costruirsi gli attrezzi dal ferro che trovavano ed erano molto gelosi dei propri attrezzi.
Nelle cave si lavorava con li sole e con la pioggia, per ripararsi si costruivano delle capanne di frasche e paglia ma anche con le lastre di scarto, i cosiddetti “cavanee” .
Lavoro duro e faticoso, (non c’erano ferie!!), solo una pausa per il pranzo che si portavano con il “tascapane”; castagnaccio, testaroli con il formaggio di pecora un fiasco di vino .
I nostri scalpellini non erano solo gente rude ma artisti orgogliosi del proprio lavoro e dei propri paesi, nei quali hanno lasciato opere che sfidano il tempo: grandi portali, nicchie casellate, il monumento ai caduti, la chiesa.
Le loro stesse abitazioni sono costruite con l’aranaria, ci raccontano ancora la loro vita .
Bisogna conoscere e vedere con l’anima di un popolo per capirne la grandezza nella sua semplicità.